Corto Maltese
Favola di Venezia
Corto Maltese: "Sirat Al Bunduqiyyah (Favola di Venezia)"
Testo e disegni: Hugo Pratt (assistito da Guido Fuga)
Versione a colori: Mariolina Pasqualini (1977), Patrizia Zanotti (1997)
1977: Rivista "L'Europeo"
(M) 1977: "Sirat Al Bunduqiyyah". Italia: settimanale "L'Europeo", Edizioni Rizzoli, n.21/22 (1977/06/03) - n.51 (1977/12/23), versione a colori di Mariolina Pasqualini; 8 strisce la settimana, Pratt è assistito da Guido Fuga.
(R) 1979: "Fable de Venise". Francia: rivista "(A Suivre)", Casterman, n.0 (1977/10, estratto della storia), n.12 (1979/01) - n.15 (1979/04); versione in bianco e nero.
1997: Nuova colarazione. Lizard Edizioni, Collana Bibliotheque (1997/11); volume cartonato con sovracoperta, versione a colori di Patrizia Zanotti
Vai alla lista completa delle pubblicazioni in volume di "Favola di Venezia".
L’eredità di mia nonna
Hugo Pratt
Avevo quattro o Cinque anni, forse sei, quando mia nonna si faceva accompagnare da me al Ghetto Vecchio di Venezia. Andavamo a visitare una sua amica, la signora Bora Levi, che abitava in una casa vecchia. A questa casa si accedeva salendo un’antica scala di legno esterna chiamata “scala matta” oppure “scala delle pantegane”, o ancora “scala turca”. La signora Bora Levi mi dava un confetto. una tazza di cioccolata bollente e densa, e due biscotti senza sale. che non mi piacevano. Poi lei e la nonna, immancabilmente, si sedevano e giocavano a carte, sorridendo e sussurrando frasi per me incomprensibili.
E così, a me non restava che passare minuziosamente in rassegna tutti i cento medaglioni appesi alla parete di velluto rosso scuro, che mi osservavano dai loro ovali di vetro. Dico che mi osservavano, perché questi medaglioni racchiudevano vecchi ritratti di severi signori in uniformi asburgiche o di rabbini con treccine nere e feltri a larghe tese. E tutti sembravano fissarmi con un’insistenza che certo sconfinava nell’indiscrezione.
Un po’ imbarazzato andavo alla finestra della cucina e guardavo giù in un campiello erboso con una vera da pozzo coperta di edera. Quel campiello ha un nome: Corte Sconta detta Arcana.
Per entrarvi si dovevano aprire sette porte, ognuna delle quale aveva inciso il nome di un shed, ossia di un demonio della casta dei Shedim, generata da Adamo durante la sua separazione da Eva, dopo l’atto di .disubbidienza . Ogni porta si apriva con una parola magica, che era poi il nome del demone stesso. Li ricordo ancora quei nomi terribili: Sam Ha, Mawet, Ashmodai, Shibbetta, Ruah, Kardeyakos, Nà Amah. Ricordo che un giorno la signora Bora Levi mi prese per mano e mi condusse nella Corte Sconta illuminando il cammino con un “menorah”, il candelabro a sette braccia, e ogni volta che apriva una porta soffiava su una candela. La corte era piena di sculture e graffiti: un re armato di arco e frecce, a cavallo di un dio; un neonato; una cacciatrice anch’essa con arco e frecce; una vacca con un occhio solo; una stella a sei punte; un cerchio tracciato nei suo1o con lo scopo di far ballare una ragazza nuda; i nomi degli angeli caduti o veleni di Dio, Samael, Satael, Amabiel. La signora ebrea mi parlava di tutte quelle cose, rispondendo alle mie domande. Poi apriva una porta sul fondo della corte e mi faceva passare in una calle con le erbe alte, che conduceva in un altro campiello bellissimo e che molto più tardi ritrovai uguale e pieno di fiori in una casa della Juderia di Cordoba.
Ricordo che nella Corte Sconta c’era una signora molto bella, sempre circondata da bambini e fanciulle che giocavano attorno a una farfalla gigante di vetri colorati. Era Aurelia, la farfalla gnostica. La gnosi rappresentando se stessa come fonte inesauribile di sapienza e offrendo, in mille riflessi di vari colori, quello che ognuno desidera. Quei due campielli intercomunicanti tramite la piccola calle nascosta chiamata “Calle Stretta della Nostalgia”, rappresentavano il centro favoloso dove si univano due mondi segreti: uno appartenente alle discipline talmudistiche e l’altro appartenente a quelle esoteriche esoteriche giudeo-greco-orientali. Tutto questo dedalo di scale, calli, corti e campielli si chiamava il “Serraglio delle Belle Idee” o anche “Serraglio dei Giudei”. In questo luogo bellissimo i miei compagni di giochi erano bambini ebrei, bravi a raccontare le cose antiche e a scavalcare muretti di cinta proibiti. Le bambine, in più, avevano dei sorrisi inquietanti che io leggevo nei loro occhi all’ombra dorata delle soffitte. Furono loro a firmi vedere per la prima volta gli Abraxas di Basilides e i simboli pitagorici, i serpenti lunari e i disegni di Menader e Saturninos. Fu in quei campielli che sentii per la prima volta i noni di Simon Mago, Mani, Origene, Arius, Valentinus, Justino, Carpocrates, Epiphanios, Tertulliano, Agostino, Hipatia e tanti altri. Fu in quel luogo incantato che seppi anche delle Clavicole di Salomone e dello smeraldo di Satana, che la tradizione ermetica vuole sia caduto dalla fronte dell’angelo del male divenendo il simbolo della “Scienza maledetta” tra gli uomini.
A una certa ora mia nonna decideva di ritornare a casa (noi abitavamo dall’altra parte della città, alla Bragora) e in quel momento sentivo fisicamente il dolore del distacco da quei misteriosi amici. Essendo troppo giovane, i miei non mi lasciavano ancora circolare da solo, perciò dovevo aspettare una o più settimane per ritornare nel ghetto. Rincasando con mia nonna passavamo per il Rio della Sensa alla Madonna dell’Orto, dove sono incastrate nei muri dell’antico “Fontego dei Mori o Saraceni” le statue dei tre fratelli arabi: El Rioba, Sandi e Afani. Quando domandavo chi mai fossero quei signori vestiti alla “grega”, mia nonna rispondeva che erano mori, mammalucchi turchi. Insomma, cose da non chiedere mi faceva capire. Dopo di che la nonna se ne andava a giocare qualche numero al lotto, secondo la cabala veneziana delle lotterie. E in me restavano irrisolti questi interrogativi turchi, saraceni, arabi che mi incuriosivano a tal punto che cominciai a chiedere spiegazioni ai moltissimi membri della mia famiglia. Così venni a sapere che i Genero, ai quali apparteneva mia madre, venivano dalla spagnola Toledo ed erano di origine sefardita-marrano, convertitisi al cristianesimo in conseguenza delle crudeli persecuzioni avvenute in Spagna nel 1390. Con i Genero erano imparentati i Toledano, i Greggyos e gli Azim, questi ultimi soffiatori di vetro bizantini a Murano. Qualcuno in famiglia parlava spesso di arabi mercanti e arabi spie, venuti a Venezia per cercare qualche cosa che i pirati veneziani avevano rubato. Questi, del resto, erano argomenti quotidiani tra noi. Ricordo che, un giorno un mio zio mi accompagnò in un campiello nascosto vicino a San Marsial e mi indicò un pipistrello di marmo verde collocato dentro una nicchia di alabastro, spiegandomi che era il simbolo di una setta di avventurieri saraceni, alleati ai Templari e ai Cavalieri teutoni. Passò qualche anno e cominciai ad andare da solo nel ghetto, frequentando con sempre maggiore assiduità gli amici dei due campielli e le loro case. Poi gli avvenimenti mi portarono in Africa. In Etiopia, ad Addis Abeba, ritrovai molto dell’ambiente veneziano frequentando la comunità greco-ebreo-egiziano-armena. Nella biblioteche di Debra Markos, Debra Ghiorghis, Debra Mariam, nei libri e nelle figurazioni copte della Regina di Saba e del Re Salomone scoprii che nella vita degli uomini che vogliono sapere ci sono sempre le sette porte segrete. E trovai che sette sono sempre le formule magiche e che i diavoli sono gli stessi, i libri nascosti più o meno uguali e gli angeli caduti un poco più numerosi. Nella letteratura copta si leggono vecchie storie con aggiunte apocrife. I miei nuovi amici dell’Africa Orientale, più anziani di me di qualche anno, mi raccontavano storie bellissime sui viaggi di Enoch e sui Giardini dell’Eden.
E le ragazze sorridevano con lo stesso inquietante sorriso delle bambine del ghetto, pur avendo, le prime, occhi di maiolica assai diversi dagli occhi color veneziano delle seconde. Venne la guerra e passai qualche anno in Dancalia e nell’Ogaden, tra i cammelli e i contrabbandieri di “chat”. Da un cammelliere dancalo venni a sapere che per entrare nel Al-Jannah Al Adn, il Giardino dell’Eden, si dovevano aprire sette porte nel deserto e per poterle aprire si devono conoscere i nomi di setti angeli terribili della tribù dei Shaitans oppure farsi accompagnare da un poeta che abbia una chiave d’oro sotto la lingua. Da un arabo eritreo venni poi a sapere che l’Adriatico si chiamava Giun Al-Banadiqin, il “Golfo dei Veneziani”, e che gli egiziani chiamavano Al Bunduqiyyah la stessa città di Venezia. Ritornai in Italia che la guerra non era ancora finita: le case del ghetto di Venezia erano chiuse e gli ebrei fuggiti si nascondevano nelle abitazioni dei veneziani. Di notte, piano piano, si raccontavano di nuovo antiche storie arabo-spagnole e si parlava del la città cabalistica di Safed in Palestina dove c’era la tomba di Simon Ben Yohai, ritenuto l’autore dello Zohar, “Il libro degli Splendori”. E ancora una volta, quando ricorrevano le feste, mangiavo i biscotti senza sale che non mi piacevano. Finì la guerra. Da allora io vado e vengo per il mondo, quasi senza meta.
Ma a Venezia ci torno sempre. Cammino per le sue calli, attraverso i canali, mi fermo sui ponti e osservo che sulle rive non ci sono più i granchi che al pomeriggio se ne stavano pigramente a prendere il sole. Non ci sono più da tanti anni. Cerco i posti di quando ero bambino ma molte volte non li riconosco. La scala matta non c’è più e non più neppure la signora Bora Levi. Le finestre della sua casa sono murate, la fisionomia del luogo è cambiata. Quando chiedo non mi sanno rispondere. Gente giovane che non sa, oppure qualche vecchio che non vuole ricordare. Un giorno, il nome della vecchia signora ebrea che mi dava il confetto e la cioccolata bollente l’ho ritrovato inciso sopra una lastra di marmo vicino al portone dell’antica Schola Espanola assieme a quelli degli altri ebrei deportati e non più tornati dall’ultima guerra. Non sono molti questi nomi, perché Venezia nascose i suoi ebrei. Li nascose nelle sue “Corti Sconte” dette “Arcane”. Corti celate ancora oggi dietro muri gelosi, con numeri civici che si reinventano quando qualche profano guarda troppo a lungo. Rimangono i nomi vetusti e sbiaditi, scritti su grandi rettangoli bianchi bordati di nero come cartoncini funerari, e i gatti soriani che sembrano suggerire, quasi come un indovinello, che tutto là è come una volta. Bisogna voler trovare. E forse si può trovare appena oltre il Ponte Ebreo, quando si entra nelle osterie, dove si gioca ancora con le vecchie carte arabe, la Saracena, la Maomettana, oppure la Bella Giudea. Giochi di Oriente e spagnoli. Gli ebrei marrani avevano le loro carte e le vecchie chiavi delle case spagnole sugli stipiti delle porte veneziane. Quasi una promessa di ritorno alla diaspora voluta dall’inquisizione spagnola. Anche a casa mia c’era una chiave spagnola toledana: mia nonna me l’aveva lasciata in eredità insieme al suo ironico fatalismo e a un mazzo di carte arabe che sicuramente sono magiche. Sulla Fondamenta che va verso la Madonna dell’Orto e San Marsilian c’è un palazzo con una croce teutonica, una rosa e un cammello di pietra. Forse a molti queste cose scolpite non suggeriranno niente, ma se si è veneziani nel cuore, allora si capisce subito che dietro un simbolo teutonico ci sarà qualcosa di misterioso e una rosa attorcigliata attorno alla croce complicherà ancor più l’enigma. L’aggiunta del cammello poi, sedurrà definitivamente l’animo intrigante di un veneziano.
Fonte: Prefazione ai volumi "Favola di Venezia", Milano Libri (1984) e Lizard Edizioni (1997).